Parla Luca Bich, il suo film si è aggiudicato il Premio Città di Imola. Al centro la figura di Diemberger, leggendario alpinista
C’era una volta un uomo che amava la montagna, le cime innevate, le rocce nude. E che collezionava una scalata dopo l’altra: il Gran Zebrù, il Monte Rosa, il K2. Sempre lui calpestava per primo due vette oltre gli 8mila metri: il Broad Peak nel ’57, al confine tra Cina e Pakistan, e il Daulaghiri nel ’60, in Nepal. Quest’uomo è Kurt Diemberger, oggi ha 82 anni, è un alpinista austriaco, scrittore e anche cineasta, divenuto ormai una leggenda.
Con i suoi film ha sempre raccontato la montagna, le vette scalate, i suoi viaggi. Questa volta, però, a raccontarlo e a viaggiare insieme a lui è stato il regista Luca Bich (nella foto piccola) con la sua ultima opera, Verso dove, che si è aggiudicata il premio Città di Imola, giunto alla sua undicesima edizione e promosso dal Comune di Imola, dalla Fondazione Cassa di Risparmio e dal Cai. Il riconoscimento va al miglior film italiano al Filmfestival internazionale di Trento e Verso dove è riuscito a salire sul podio.
Bich ha all’attivo diversi film e docufilm sui temi più svariati, dalle riprese della facoltà occupata ai tempi in cui era studente al Dams di Bologna, a un documentario che racconta la figura di Antoin Le Ménestrel, uno dei pionieri della danza verticale, un insieme di danze e tecniche d’arrampicata su roccia.
Il regista valdostano, che era presente alla cerimonia di premiazione a Imola, lo scorso 15 ottobre, insieme allo stesso Diemberger (nella foto grande, durante la cerimonia), ci apre le porte al suo mondo, fatto di montagne, ma soprattutto di cinema.
Conosceva già di persona la leggenda dell’alpinismo Kurt Diemberger?
Sì, conoscevo Kurt già da tempo, da molto prima che nascesse l’idea di realizzare un film che lo vedesse protagonista. Aveva preso parte ad alcune serate di una rassegna che organizzo in Valle d’Aosta, Filmontagna ed è lì che ci siamo incontrati per la prima volta.
Poi?
Un giorno il mio socio, Enrico Montrosset, ha avuto l’idea di mettere Kurt Diemberger al centro di un film. Perché no? Scala le montagne, ma sa anche abilmente raccontarle attraverso parole e immagini. Un talento dietro l’altro. Così abbiamo iniziato un percorso insieme a lui, non con l’intento di celebrare le sue vicende, ma cercando semplicemente di raccontarle, di trasmetterle al pubblico e di far capire da dove nascono la sua forza e la sua linfa narratrice.
Una sorta di viaggio, dunque?
Sì, girare il film è stato proprio questo. Un viaggio materiale, perché ho seguito Kurt nei luoghi che hanno caratterizzato la sua vita, dall’Austria all’Alto Adige, e abbiamo vissuto insieme per una ventina di giorni. Ma anche un viaggio interiore, tra i suoi ricordi e le sue pellicole.
Cosa le ha insegnato questa leggenda dell’alpinismo?
Che ciò che conta è l’hic et nunc, il qui e ora. Con lui ho riflettuto molto su questo concetto, sul fatto che la vita è adesso, che, come diceva il filosofo Friedrich Schiller, l’istante che stai vivendo non te lo rende più nessuno. Certo, è umano preoccuparsi del futuro o portarsi dietro ciò che ha caratterizzato il proprio passato. Lo stesso Diemberger porta addosso i segni delle esperienze che ha vissuto, nel corpo e nella mente. Ha subito alcune amputazioni, ha perso una compagna. Ma la sua filosofia di vita è dare valore al presente. È qui che siamo vivi.
Nato e cresciuto in Valle d’Aosta. Cosa rappresenta per lei la montagna?
È la mia casa e sono legato a quei paesaggi. Ma non ho sempre vissuto lì. Ho passato alcuni periodi lontano dalle mie cime innevate, per esempio quando frequentavo l’università a Bologna. E la sensazioni di vivere in pianura erano molteplici. Da una parte era sconcertante trovarsi di fronte a un paesaggio tanto diverso. Dall’altra c’era anche una sorta di euforia, la sensazione di poter andare dappertutto, in ogni direzione, senza pareti rocciose a porre limiti. Poi, certo, spesso tornavo a casa. Ed era sempre bello ritrovare le mie montagne. Anche se non le ho mai vissute come Diemberger. Diciamo che sulla carriera da alpinista ha prevalso il lavoro legato al cinema.
Lati positivi e negativi di questo mestiere?
Credo che la bellezza di ciò che faccio sia il suo stesso limite. Mi spiego meglio. Lavorare col cinema, che si tratti di fare il regista o di organizzare una rassegna, lascia spazio all’immaginazione, alla creatività, alla fantasia. Si è molto liberi. Ma è necessario non fermarsi mai, cercare continuamente idee, nuovi stimoli. E l’ispirazione non va a comando, non sempre è presente.
In questo momento c’è o non c’è?
Direi che c’è. Sto lavorando a un nuovo film, che sto finendo di girare. Un ex rocker rientra a Cuba, suo paese natale, dopo 30 anni di assenza. Ritrova la sua città, ciò che lo aveva accompagnato durante l’infanzia. Anche in questo caso è un viaggio, ma di ritorno. Diverso rispetto a quello che ho fatto con Kurt, ma sempre viaggio è.
Verso dove si è aggiudicato il riconoscimento Città di Imola, che premia la miglior opera italiana al Filmfestival internazionale di Trento. Una bella soddisfazione…
Assolutamente sì. Il mio lavoro vale, pensi. Non è cosa da poco vedere che la propria opera viene riconosciuta, anche materialmente. Oggi è sempre più difficile realizzare film e un sostegno economico, anche se piccolo, fa la differenza. Come questo premio che ci è stato riconosciuto e come l’aiuto che ci è stato dato da Film Commission Valle d’Aosta, Club alpino italiano, Grivel, Convenzione delle Alpi. Senza di loro, non sarebbe nato Verso dove.