6, Febbraio, 2025

Don Giovanni vescovo tra la gente

Per capire chi è don Giovanni Mosciatti bisogna partire dalla fine della splendida giornata che lo ha reso nuovo vescovo di Imola. La band e il palco, la tromba che suona insieme alla chitarra elettrica e alla batteria, un popolo in festa, che canta e balla, perché c’è un motivo per fare festa. Difficilmente ci dimenticheremo questa giornata, difficilmente non potremo non raccontarla a chi non era presente. Entra nella storia non tanto perché abbiamo “un vescovo rock”, come da tanti è già stato soprannominato. Certo, fa notizia un sacerdote (per di più vescovo) che suona la tromba e canta il blues. Ma non ce lo dimenticheremo mai per la capacità di don Giovanni di stare insieme al suo popolo, di farlo cantare, di farlo piangere – come successo a tanti durante la celebrazione della messa -, di guidarlo. Sì, perché se la metafora vuole che il vescovo sia come un pastore che guida il suo gregge, don Giovanni mi pare più un pastore che sta in mezzo alle pecore, un po’ guida e un po’ compagno, pronto a percorrere insieme quella strada piena di miracoli e difficoltà. Non a caso una delle ultime canzoni recitava: “sento la vita che mi scoppia dentro al cuore, cammina l’uomo quando sa bene dove andare”. Glielo ha ricordato bene anche monsignor Zuppi, arcivescovo metropolita di Bologna, durante l’omelia in cattedrale: «Il buon umore non ti manca e ti tiene lontano dal sussiego altero che non avvicina e sconsiglia di avvicinarsi. Sei un padre e non un paternalista che ripete consigli lontani e istruzioni per l’uso ma non li vive con loro. La simpatia è il primo modo per regalare l’amore che Dio ci ha messo nel cuore e tanto permette di avvicinarsi». Un amico giunto da Perugia per l’occasione, mentre sul palco si cantava Bandiera gialla mi ha sussurrato all’orecchio: “Quando pensi ad un vescovo l’ultima persona che ti verrebbe in mente è don Giovanni”. È vero, non ci siamo abituati. Ma la Chiesa di oggi ha sempre più bisogno di religiosi e laici che testimoniano la bellezza dell’essere cristiani, che tra una nota di Romagna mia ed un assolo di tromba urlano al mondo che vale la pena spendere la vita per questo Ideale. Tutto questo è stato evidente sabato sera nel parco della Rocca. Don Giovanni così a suo agio in mezzo ai “Turno di guardia”, il nome del gruppo che da giovane aveva formato insieme ad alcuni amici e con il quale ha girato tutta Italia per far sentire la propria musica. Come Il blues del giovane ricco – che parla di un ragazzo che vuole donare la sua vita al Signore -; o Il veliero di Bruno Brunelli – che racconta del viaggio in mare fatto insieme ad alcuni compagni di avventura. Andando a ritroso nell’arco di questo storico sabato di metà luglio, due flash mi vengono in mente per continuare a descrivere don Giovanni. In primis l’abbraccio con monsignor Tommaso Ghirelli, ora vescovo emerito della nostra Diocesi, guidata con cura e paternità per 17 anni. È emblematico perché nella differenza di carattere e temperamento che può esserci, sottolinea la continuità della Chiesa nel corso del tempo. Il passaggio di un testimone ricevuto da buone mani e che ora don Giovanni dovrà custodire e alimentare. E infine l’abbraccio con la madre Marisa, nuova imolese d’adozione dal momento che verrà ad abitare in città insieme alla figlia Maria Vittoria, sorella del vescovo. Ha pianto di commozione per tutto il tempo della messa, di volta in volta sorretta e abbracciata da amici e parenti. Lacrime di gioia che hanno invaso il volto di tanti marchigiani arrivati in gran numero – più di 500 – proprio per don Giovanni, segno evidente di ciò che ha lasciato nel cuore di queste persone. Ma in realtà nel nostro cuore eri già entrato, caro don Giovanni (o forse adesso dobbiamo chiamarti Sua Eccellenza?), al termine della messa quando hai concluso il saluto istituzionale in questo modo: «Sono molto contento di venire in questa terra di Romagna, che è la terra della passione e dell’amore schietto e generoso, come ricorda una strofa del bell’inno Romagna mia: “tu sei la stella, tu sei l’amore… lontan da te non si può star”. Dilettissimi fratelli e sorelle, sento il calore del vostro affetto e con tutto il cuore lo ricambio. Permettetemi di farlo con le mie prime parole nel vostro – anzi nel nostro – bel dialetto romagnolo: ‘Av vòi bela che bè’: vi voglio già bene! Grazie a tutti!». Sarà una grande avventura.

Davide Santandrea

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