6, Febbraio, 2025

Dopo la caduta del muro di Berlino

Nove anni prima della caduta del muro di Berlino, un collega tedesco mi esprimeva il sofferto timore – se non la certezza – che le due Germanie, dell’Ovest e dell’Est, non sarebbero mai più state riunite. Con la demolizione del muro, eretto nel 1961 dal regime di Pankow, cambia improvvisamente ed imprevedibilmente la storia dell’Europa. Anzi, del mondo, col disfacimento, da lì a breve, dell’Unione Sovietica. Muta il panorama politico mondiale. Uscirono allora – tra altri – due libri che guadagnarono da subito una notevole diffusione e notorietà: Fine della storia, di Francis Fukuyama e Il secolo breve di Eric Hobsbawm, entrambi, oggi, pressoché dimenticati. Nel primo, il professore di Stanford (Palo Alto, California) non intendeva affermare che la vicenda umana, su questa terra, si sarebbe arrestata di colpo: quanto, piuttosto, che a seguito di quei due avvenimenti, tra il 1989 e il 1981, si dissolveva il significato della storia, previsto da Marx, orientata ad un fine, ad un esito necessario, con la rovina del sistema politico ed economico del capitalismo e l’edificazione di una società fatta di liberi ed uguali. Finiva, così, nel giudizio di Fukuyama, l’ultima grande ‘narrazione’ sovrapposta alla storia, si dissolveva una prospettiva nella quale milioni di persone avevano creduto, ritenendola scientificamente fondata e pertanto certa del suo avverarsi. Nessuno avrebbe potuto, ormai, prospettarne un’altra e sostitutiva. Senza una guida, senza una dottrina o un orientamento razionalmente accettabile, la filosofia della storia era costretta ad ammettere la sua fine. Da parte sua, Hobsbawm contrapponeva, nel suo libro, ad un ‘secolo lungo’, cominciato con la rivoluzione francese del 1789 e chiuso dalla Belle Époque’, un secolo breve’ (dal 1917 al 1991, segnato dall’affermazione del comunismo, dalla breve stagione dei totalitarismi e dal maturo capitalismo). La veloce conclusione del ‘secolo breve’ certificava il fallimento – e qui Hobsbawm si accostava a Fukuyama – di tutti i programmi, vecchi nuovi, pensati per gestire o migliorare la condizione del genere umano. Marxista convinto, lo storico inglese ha dovuto pur prendere atto non soltanto del fatto che le previsioni di Marx s’erano dimostrate illusorie, ma ancora che le idealità nazionali di matrice romantica – ritenute da Marx prodotto di una falsa coscienza – anziché sparire, hanno ripreso ovunque una forza imprevista e decisiva: a cominciare proprio dai territori già soggetti all’Unione Sovietica e alla repubblica socialista Jugoslava, entrambe frantumate in un mosaico di stati a base etnica e orgogliosamente radicati nelle proprie tradizioni linguistiche, religiose, culturali. Dal contrasto tra le forze che, da un lato, spingono verso la globalizzazione economica e l’omogenizzazione culturale e, dall’altro, premono con decisione sul versante delle identità tradizionali dovrà pur uscire un nuovo assetto geopolitico mondiale del quale, oggi, non siamo però ancora in grado di prevedere le fattezze, le modalità organizzative e gli interni equilibri.

Andrea Padovani,
Docente di storia Marcianum – Venezia

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