5, Febbraio, 2025

La speranza non è la stessa cosa dell’ottimismo

Sono giornate intense queste alla Casa di Accoglienza, giornate difficili ma cariche di significato. Da quando è iniziata l’emergenza la preoccupazione più grande è stata quella di preservare i propri cari, soprattutto i più fragili. Non appena tutto il territorio nazionale è diventato zona rossa l’ospedale ha giustamente annullato i ricoveri in day hospital e ha provveduto a dimettere i pazienti che erano già al termine del loro percorso riabilitativo. Velocemente molte famiglie sono partite per raggiungere i propri cari e sugli oltre 80 posti letto alla Casa sono rimaste poco più di una ventina di persone. Quando l’ospedale ha giustamente chiuso i reparti impedendo le visite dei familiari rimasti, ovviamente la paura per i propri cari ricoverati e il senso di abbandono che ha pervaso i pazienti si sono acuiti. Quando è arrivata la notizia che il primo paziente era risultato positivo al tampone la paura è cresciuta, la preoccupazione per i propri cari e per chi da casa seguiva con apprensione e senso di impotenza ciò che stava accadendo si sono trasformati spesso in momenti di rabbia, di pianto. Noi operatori abbiamo condiviso quella disperazione cercando di accogliere il pianto, lo sfogo, la rabbia. Ci siamo fatti e ci facciamo compagni di viaggio come possiamo, cercando di accogliere la realtà affidando la nostra e la loro fatica, facendo in modo che nessuno si debba sentire solo e tenendo sempre accesa la speranza che anche questo brutto momento passerà e ne usciremo più forti e consapevoli. Le persone non ci chiedono molto, un aiuto per la spesa, l’acquisto dei loro farmaci che stanno finendo…ma soprattutto un sorriso e il nostro tempo per ascoltarli. Giovedì scorso una signora è scesa dalla sua stanza e da sopra la sua mascherina che le copriva il volto spiccavano gli occhi lucidi e gonfi di lacrime. “ signora mi dica, posso aiutarla in qualche modo?” e lei mi ha risposto “grazie ma non ho bisogno di niente, vorrei solo che parlasse un po’ con me, mi dedica cinque minuti per favore?”…. Abbiamo parlato per più di un’ora e quando ci siamo lasciate sorridevamo e la distanza di oltre un metro non ci ha impedito di abbracciarci con lo sguardo e con le parole. Nei giorni scorsi il nostro Vescovo ha condiviso con alcuni di noi una definizione meravigliosa e rivelatoria di Havel sulla speranza. È chiaramente una sfida….che noi vogliamo accettare. “La speranza non è la stessa cosa dell’ottimismo. Non si tratta della convinzione che una certa cosa andrà a finire bene, ma della certezza che quella cosa ha un senso, indipendentemente da come andrà a finire”. Vaclav Havel, “Che cos’è la speranza?”. L’espressione “Andrà tutto bene” deve aver dentro questo tipo di speranza a cui ci richiama Vaclav Havel. In caso contrario andrà tutto bene, forse, solo per chi non sarà contagiato, o sopravviverà, o non sarà costretto a chiudere la propria attività, o non perderà il lavoro, o….insomma per pochi. E quando finirà torneremo quelli di prima, senza aver imparato nulla da questo delirio. Il Papa ieri sera secondo me ci ha richiamati alla speranza, quella vera e che noi sperimentiamo quotidianamente alla Casa nel rapporto quotidiano con le famiglie, nel nostro cammino di fede e all’interno della Sua Chiesa.

Claudia Gasperini

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