Nei tempi difficili dopo l’uscita dal lockdown di primavera circolava la notizia di una possibile ripartenza del campionato di serie A. “Riparte il calcio” titolavano i quotidiani, “la cosa più importante tra quelle meno importanti.” Al di là della notizia in sé sono rimasto colpito dall’uso improprio dell’aggettivo “importante”. Definire più o meno importante un’attività, un pensiero, una persona presuppone una scelta gerarchica assoluta che esula da qualsiasi contesto – in questo caso una pandemia – e che quindi la rende sotto certi aspetti definitiva. Uno stadio, un teatro, un cinema, un museo sono, secondo questa linea di pensiero, in assoluto meno “importanti” di un ospedale, di un supermercato, di un laboratorio scientifico, di una scuola. Più corretto sarebbe stato usare il termine “urgente”; l’urgenza parte da altri presupposti, è ancorata a un contesto di difficoltà o di bisogno, è legata al contingente, è fissata nell’hic et nunc di un momento circoscritto. In uno stato di emergenza, chiaramente un ospedale è più “urgente” di un teatro aperto o di un museo. Ma non per questo teatri e musei sono meno “importanti”. Vi sembra una questione irrilevante? Non lo è. Noi operatori dello spettacolo ci confrontiamo da sempre con questa confusione terminologica, che in questi momenti difficili ha avuto una recrudescenza inaspettata e si è ripercossa con violenza sul nostro lavoro. Le strategie adottate a livello normativo e pratico per salvaguardare il nostro settore sono state, giorno dopo giorno, declinate a margine di decreti principali con solerte sbrigatività, a volte addirittura relegate in linee guida più o meno confuse. Le soluzioni proposte come alternative alla chiusura (basti pensare al risibile tema del “netflix della cultura”) hanno brillato per astrattezza e arroganza. Sta di fatto che i teatri e i cinema sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a riaprire: questo anche se i numeri forniti dalla SIAE, incrociati con quelli del Ministero della Salute, li indicano come luoghi sicuri, dove i protocolli sanitari sono stati applicati con grande scrupolo e sono stati seguiti da un pubblico straordinariamente collaborativo. A questo si aggiunge una conoscenza parziale dei problemi di un settore strategico ed economicamente rilevante per un paese in cui “spettacolo dal vivo” si circoscrive solo a chi appare su un palcoscenico. Nella realtà il palcoscenico è un punto di arrivo, la tappa finale di un percorso che coinvolge migliaia di professionisti (tecnici, attrezzisti, costumisti, trasportatori, personale di sala e di biglietteria). Esseri umani lasciati in un limbo professionale fatto di contratti sospesi, di recite cancellate, di tutele economiche precarie o assenti. “Adda a passà ‘a nuttata” , così concludeva De Filippo il suo capolavoro Napoli milionaria. Un finale, aperto, sospeso, inquietante, un punto interrogativo lanciato sul pubblico. Questo è il mantra di noi che lavoriamo in teatro, pronti a ripartire all’alba, sempre convinti – a dispetto di tutto – della nostra “importanza” a tutela della collettività per cui lavoriamo. E lo stiamo facendo ostinatamente anche a sipario chiuso.
Luca Rebeggiani,
Direttore Teatri di Imola
Responsabile Servizio Teatri,
Attività musicali e Politiche giovanili