6, Febbraio, 2025

Di tutti o di nessuno?

Ciò che gli antichi romani chiamavano res communes omnium non erano, come un’incauta traduzione letterale potrebbe indurre a pensare, “cose di tutti”, ma di nessuno.
La differenza è sostanziale: se i pesci del mare sono di nessuno, puoi catturarli senza problemi, con qualunque mezzo; se le sponde di un corso d’acqua o una spiaggia sono di nessuno, puoi costruirci sopra tranquillamente una villa. Se la luce del sole è di nessuno, puoi sistemare una tenda all’entrata del tuo negozio e limitarne la violenza, senza dover chiedere il permesso a nessuno.
Da questi brevi esempi si deduce un’altra importante caratteristica delle res communes omnium: potevano essere privatizzate e diventare proprietà di un singolo (res privatae).
Un caso particolare è quello di un’area adibita per consuetudine a pascolo: i pastori non ne diventano proprietari in senso stretto ma a nessuno sarà consentito di impiantarvi, per esempio, un orto: una situazione intermedia tra il comodato d’uso gratuito e la comproprietà. Oggi non siamo disposti a considerare “di nessuno” il mare e le sue rive o l’aria che respiriamo o un ghiacciaio: invochiamo, anzi, che, in quanto “beni collettivi”, essi siano adeguatamente protetti e tutelati. Oggi, che si è affermata la consapevolezza della limitatezza delle risorse naturali e della fragilità dell’ambiente in cui viviamo. L’apparente insensibilità degli antichi nei confronti di ciò che noi oggi consideriamo “beni comuni” nasceva infatti dalla considerazione che tali “beni”, essendo presenti in natura in quantità illimitata (così pensavano…), non sono oggetto di diritti individuali o collettivi né, di per sé, causa dell’insorgere di conflitti di interesse.
Tale “insensibilità”, tuttavia, è solo apparente: il concetto di “bene collettivo” (res publicae) era invece molto sentito dagli antichi romani. Strade, teatri, porti, terme, stadi, per tutta l’età repubblicana e durante il primissimo impero, erano considerati proprietà intangibile della collettività. La res publica poteva venire assentita in concessione (proprio erano come avviene oggi), ma la proprietà era e rimaneva del popolo. Quale popolo? Ovviamente lo Stato Romano: SPQR!
Anche allora, però, qualcuno lamentava l’incuria dimostrata per “le cose di nessuno”. Orazio, per esempio, sottolineava che i moli, così numerosi, riducevano lo spazio vitale dei pesci; Sallustio inveiva contro il mal vezzo di spianare colline per costruire ville sfarzose; Varrone criticava Lucullo, che aveva fatto eseguire dei lavori idraulici al solo scopo di far circolare l’acqua nelle sue piscine; Valerio Massimo si scagliava contro Sergio Orata, che aveva fatto modificare un tratto costiero per allevarvi dei pesci; Seneca, infine, così sbottava: «Dico a voi, il cui lusso non è meno esorbitante dell’avidità di quegli altri. Fino a quando ci sarà un lago in cui non si specchieranno le vostre ville? Un fiume sulle cui rive non s’innalzeranno i vostri palazzi? Dovunque scaturiranno polle d’acqua termale ivi costruirete nuove lussuose abitazioni. Dovunque il lido si piegherà in un’insenatura voi getterete nuove fondamenta. E, non contenti della terraferma, costruirete anche sul suolo artificiale che avrete sottratto al mare. A che servono tante stanze? Ne basta una per dormire. Non sono vostre quelle dove non siete!»
Orazio, Seneca, Sallustio non sarebbero contenti, oggi, nell’accertare quale scempio abbiamo perpetrato a danno dell’ambiente.
Si consolerebbero, però, nel constatare che l’uomo moderno non considera più l’aria, il mare, le colline, i boschi “cose di nessuno” ma “cose di tutti”, da salvaguardare come il bene più prezioso.

Riccardo Della Ricca
biologo e appassionato
di topografia antica


 

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