La pandemia sta insegnando tante cose: la cura della propria famiglia intesa come Chiesa domestica, la possibilità reale di poter vivere lontani dalla frenesia quotidiana, la riscoperta di una scala valoriale che sa rifuggire la massimizzazione del profitto e mette al centro la persona, la vita. Sta risorgendo il bene comune, inteso come fine morale, attraverso l’impegno di tante persone e il rispetto delle ordinanze restrittive, che testimoniano che la salute è un bene che tutti dobbiamo promuovere. Ma dobbiamo chiedere intercessioni dall’Alto per essere illuminati su cosa davvero significhi fino in fondo la “cura della casa comune”. Occorre continuare a lottare per salvare la vita delle persone contagiate, ma sarà altresì necessario ripensare a come poter salvare altrettante vite innocenti uccise con l’aborto, o con la violenza, o come sconfiggere la mentalità che vuole introdurre pratiche eutanasiche. Bene comune è ammettere che connesso al problema sanitario c’è quello altrettanto urgente del lavoro. In Caritas tocchiamo già con mano che il blocco delle attività produttive sta producendo sofferenza ed enorme nuova povertà (molti non hanno soldi messi da parte), e sappiamo anche drammaticamente che non tutto tornerà come prima. Non sarà soltanto la sanità che avrà bisogno di nuove risorse economiche, ma anche il mondo del sociale, se vorremo evitare un conflitto sociale. Salute e lavoro non vanno intesi come tra loro in antitesi, così come vita e libertà. Perché privare troppo la libertà significa rimettere la propria vita nelle mani altrui. Dal nostro osservatorio crediamo che non si possa essere spavaldamente ottimisti (“Andrà tutto bene”…). Vediamo sì una stupenda solidarietà, spesso però assai istintiva e passeggera, ma notiamo anche che emergono sempre più di frequente, nelle persone assistite, aggressività, egoismo, pretese sconfinate. Notiamo come negli anni molti contributi pubblici abbiano instillato una cultura negativa introducendo in tante persone un nuovo terribile diritto: il reddito senza lavoro. È la trappola di un approccio assistenzialista, che ha colpito anche il nostro territorio, che è nefasto perché riduce l’aiuto alla sua dimensione economica; sollecita il diritto a ricevere aiuto senza alcuna responsabilizzazione del soggetto; fa prevalere una modalità burocratico-amministrativa per verificare la pertinenza dell’aiuto erogato. C’è una vicinanza ed un accompagnamento da agire sempre e comunque, ma contemporaneamente si avverte un’esasperazione crescente nelle persone più fragili che andrà affrontata con strumenti nuovi e sussidiari, con soluzioni in grado di aiutare e non solo di assistere e che consentano di concentrarsi sulle capacità delle persone seguite. Non basterà nel futuro assegnare ulteriori, seppur necessari, contributi economici a chi sarà nel disagio, ma servirà fornirli in modo diverso, e soprattutto sarà indispensabile donare un amore capace di costruire legami, che invoca minori disuguaglianze sociali, che coniuga bontà con verità, che sa esprimersi con delicatezza senza cadere nell’ingenuità.
Luca Gabbi,
direttore Caritas diocesana