Ora che la via d’uscita dal Covid, pur tra mille ritardi, non sembra più così lontana, credo sarebbe saggio ricordarci dei tempi in cui dicevamo “ne usciremo migliori” e provare a dare concretezza a questo slogan. Ci accorgiamo che molte delle cose che questa esperienza può insegnarci ci erano già note, ma faticavamo a metterle a fuoco. Una su tutte? L’utilità della ricerca scientifica. La scienza è tra le più belle avventure intraprese dall’umanità e la pandemia ci ha mostrato come gli Stati possano fare molto per il suo progresso. A questo proposito, urge fare qualcosa per quei tanti lavoratori iper-qualificati e precari cronici che sono i ricercatori pubblici nel nostro Paese. Non è la materia prima a mancare: abbiamo menti brillanti, riconosciute nel mondo, e università di qualità per dare la preparazione che serve. Manca un sistema garantisca stabilità e opportunità di crescita. Ricordiamoci che la ricerca è necessaria anche quando non strettamente connessa a un’esigenza immediata, come trovare un vaccino.
I ricercatori fanno parte di quelle categorie che si scontrano con quello che potremmo chiamare “il paradosso dell’eroe”: se dici che ti occupi di ricerca a fini medici vieni guardato con ammirazione, ti è concesso un attimo di fierezza. Sei un “eroe” che mette la sua competenza al servizio della salute di tutti. Ma poi… le condizioni di lavoro di chi fa ricerca non rientrano tra le priorità quando si parla di riforme e non si trova la disponibilità diffusa a premere sulla politica per rafforzare la posizione dei ricercatori che rimangono precari per anni, con diritti e prospettive di carriera spesso tendenti allo zero. Armati del loro entusiasmo, finché dura. Fuga di cervelli? Spesso è una questione di sopravvivenza, il non rassegnarsi a cambiare lavoro. Basta guardare al trattamento che i ricercatori ricevono in altri Stati europei: non è difficile notare le differenze in termini di retribuzione, prospettive professionali, premialità nella distribuzione delle risorse. Certo, c’è un problema anche a monte: la mancanza di confidenza con la cultura scientifica che caratterizza il modo in cui pensiamo all’istruzione. Le risorse del Recovery Fund sono una buona occasione anche su questo fronte. Guardiamo al futuro. Il Covid verrà sconfitto, l’economia avrà il tanto atteso rimbalzo e i nodi del Paese torneranno al pettine. La condizione della ricerca pubblica è tra questi. Se riusciremo a essere migliori, dopo la pandemia, è perché decideremo di esserlo, non accadrà automaticamente. Questo vorrà dire anche stabilire un diverso ordine di priorità. Possiamo sperare che la ricerca pubblica guadagni qualche posizione.
Lorenzo Benassi Roversi