Non possiamo ancora chiamarci fuori ma è forse possibile oggi effettuare un’analisi di quanto abbiamo vissuto nel mondo dell’istruzione, durante la convivenza forzata con l’epidemia pandemica. Vista l’inedita impossibilità di incontrarsi, la scuola ha dovuto fare ricorso a una metodologia fino a quel momento appannaggio di rare situazioni patologiche o sporadiche sperimentazioni digitali: la DAD, Didattica A Distanza, un acronimo rimbalzato subito sulla bocca di tutti. Da marzo a giugno 2020 lezioni a distanza per tutti: mediante programmi che fino a un attimo prima venivano utilizzati per le videochiamate di parenti e amici lontani, si tengono lezioni, ma anche riunioni e incontri, che entrano in tutte le case tramite monitor, tablet e telefoni. Finisce così l’anno scolastico 2019-2020, le valutazioni possono prevedere al massimo un maxidebito da sanare lungo l’anno successivo, sono praticamente abolite le non ammissioni e cancellati i giudizi sospesi. Si riparte a settembre 2020 con mascherine, distanziamento e, ottimisticamente, la DAD si trasforma in DDI (Didattica Digitale Integrata), un misto di attività in presenza e a distanza. Fortunatamente le scuole del I ciclo riescono a garantire una presenza quasi costante per tutto l’anno scolastico effettuando qualche slalom tra quarantene e zone rosse, ma per le superiori inizia un balletto ininterrotto dettato da capienza dei mezzi pubblici, ricorsi al TAR, sfumature dal giallo al rosso, richieste prudenziali delle famiglie, spazi in dotazione ai vari istituti. La didattica a distanza, che aveva portato gli inguaribili ottimisti a parlare di un conseguente rinnovamento delle metodologie grazie anche alle innovazioni tecnologiche introdotte, unica soluzione possibile in prima battuta, mostra i limiti sulla lunga distanza: della mancanza di incontri in presenza ne risente non solo il processo di apprendimento-insegnamento, ma anche la relazione sociale in un momento delicatissimo di crescita. Risulta evidente la motivazione che ha portato i legislatori a ridurre al minimo gli incontri in presenza e lungi da noi il voler creare sterili gerarchie tra diritto alla salute e diritto all’istruzione; semplicemente non si possono non registrare gli inevitabili effetti negativi di una prolungata segregazione di studentesse e studenti. Sono convinto che gli istituti abbiano assolto egregiamente il compito di servizio pubblico in questo anno e mezzo, grazie all’instancabile opera di tutto il personale scolastico, ma la necessità di una relazione concreta e tangibile è (per fortuna?) ancora fondamentale. Alla scuola non si può chiedere di più, si potrebbe anzi estendere ad essa il giudizio che il Maestro Manzi, precursore a suo modo della didattica a distanza, assegnava agli studenti: fa quel che può, quel che non può non fa.
Gian Maria Ghetti
Dirigente Scolastico Istituto Tecnico Agrario e Chimico “Scarabelli – Ghini” Imola