Quando un partito subisce una copiosa emorragia di voti solitamente vede ridursi anche i seggi e – di conseguenza – le cariche politiche che gli spettano. Ciò lo costringe a rettificare la propria linea di azione, i propri vertici o almeno le modalità comunicative, per tentare il recupero dell’elettorato perduto.
Tra i molti paradossi emersi dalle recenti elezioni regionali in Emilia Romagna, che hanno fatto versare fiumi di inchiostro, la parte del leone è andata alla abnorme percentuale di astenuti e all’obbligo per tutta la classe politica di riflettere sulle cause del fenomeno. Fiato sprecato. Non tanto per ottusità, superficialità o negligenza dei dirigenti di partito, ma soprattutto perché è venuto a mancare il pungolo principale, cioè l’equazione meno voti = meno seggi.
Il Pd, vincitore indiscusso delle elezioni regionali, ha visto calare di quasi il 40% il numero di voti rispetto alle precedenti consultazioni (535.109 nel 2010, 857.613 nel 2014). Ma nel contempo ha aumentato i suoi seggi, passando dai 24 del 2010 ai 30 del 2014 (+ 6). Ovviamente in democrazia decide chi vota, non chi si astiene, e poiché l’astensione ha falcidiato tutti i partiti, il Pd ne ha tratto legittimamente vantaggio in termini di seggi assegnati. Con il ruvido realismo che lo contraddistingue, il premier Renzi ha sottolineato che il dato delle astensioni è secondario, ciò che conta sono i seggi, perché con essi si governerà la Regione fino al 2019.
Ma la mancanza del pungolo meno voti = meno seggi, sostituito dall’oppiaceo meno voti = più seggi, rischia di indurre il ceto dirigente del Pd regionale a non mutare nella sostanza nulla o quasi nulla del suo agire sostanziale (nomine in primis), derubricando rapidamente gli oltre due milioni (due milioni!) di elettori che hanno disertato le urne a fenomeno di protesta contro il Governo, disgusto per le spese pazze dei consiglieri regionali o altre cause contingenti. Tutte motivazioni fondate e tra loro complementari, che però rischiano di oscurare la radice primaria del problema, cioè il distacco, la distanza e l’incomunicabilità tra un ceto dirigente ormai autoreferenziale e il resto della popolazione.
A confutazione di questa analisi si potrebbe obiettare che se gli elettori volessero cambiare classe politica, non avrebbero che da cambiare partito, invece di astenersi. Ma la mancanza di una alternativa politica credibile e non divisiva ha vanificato una simile possibilità, sfociando in un astensionismo straniante e gravido di conseguenze nefaste per la vita politica e sociale dell’Emilia e della Romagna.