Tra le diciassette squadre che partecipano al campionato Csi di calcio a 11 ciascuna ha, come si dice in gergo, il suo dna. Ci sono alcune particolarità che saltano subito agli occhi, altre che invece non si notano subito ma a guardare meglio si rivelano per il loro valore. Ci sono storie che meritano di essere raccontate. Quella della squadra di San Giacomo la racconta Claudio Minardi, che la conosce bene.
«È una realtà nata nel 2001, a partire da un gruppo di ragazzi dell’oratorio che hanno deciso di formare una squadra che partecipasse al campionato Csi. Hanno seguito i passi già fatti precedentemente per il basket, nel ’96; ciascuno di loro ha chiamato altri ragazzi, ed è nato un gruppo. All’inizio, l’intenzione era semplicemente quella di divertirsi, poi è diventata un’occasione di aggregazione per tanti ragazzi della zona. È passata e si è aggregata tanta gente, che quasi mai faceva già parte dell’oratorio».
Quello che caratterizza l’Olvi San Giacomo, infatti, è che non giocano solo ragazzi dell’oratorio, ma anche tanti stranieri che per il resto non frequentano le attività di San Giacomo. «Non abbiamo mai rifiutato nessuno, l’unico requisito è mettersi in gioco e rispettare i compagni e l’allenatore, stranieri o non stranieri. È capitato per caso, all’inizio, che un gruppo di ragazzi originari dell’Albania e della Romania volessero giocare a calcio. In seguito hanno preso parte anche ragazzi del Marocco. Il nostro obiettivo è che tutti abbiano modo di stare bene insieme, con il rispetto e il sostegno reciproco, dentro la squadra e fuori. La presenza di ragazzi stranieri è un fatto che ci fa piacere, in un periodo in cui si fa presto ad accusarsi a vicenda. Spesso è difficile avere a che fare tra Paesi e origini diversi. Il calcio è un modo per socializzare e rompere questi muri, dentro e fuori dal campo».
A questo proposito Alessandro Conte, che gioca nel San Giacomo, racconta: «Le prime volte molti venivano solo per gli allenamenti e le partite. Ora partecipano anche alle cene, qualcuno porta anche la propria ragazza. Alcuni dei ragazzi stranieri sono molto bravi e potrebbero giocare in categoria, invece preferiscono rimanere qui. Naturalmente, ogni tanto ci si scontra con qualche problema, ma è normale. Chiunque voglia venire, noi lo prendiamo!».
Quanti ragazzi conta la squadra? «All’incirca tra i venti e i trenta – spiega Claudio Minardi – tra questi quattro o cinque frequentano l’oratorio. Il nostro obiettivo è proprio aprire a chi non ne fa parte. Ci sono ragazzi che, anche se non riescono più a continuare ad allenarsi, quando ci sono iniziative di squadra, partecipano, si mantengono in contatto tramite i social o con una telefonata».
Con queste premesse, come si può descrivere il clima che si respira? «Ci sono gli alti e i bassi, i momenti di difficoltà; alcuni ragazzi si legano di più, altri di meno… Ma vogliamo che ciascuno senta la squadra un po’ come propria e insieme cresca anche personalmente. Un esempio? Finita la partita, soprattutto con la bella stagione, che si vinca o che si perda si esce insieme, a fare un aperitivo e due chiacchiere. Questo malgrado il malumore legato alla sconfitta; a volte ci può essere anche un po’ di nervosismo. Ma poi passa in secondo piano rispetto a stare insieme e a divertirsi a giocare. L’allenatore, Daniel Masola, è molto bravo a gestire le dinamiche in questo senso: in campo non si discute tra compagni, cosa che spesso succede in molte squadre. Può capitare, certo, ma l’allenatore punta molto su questo aspetto, fin dagli allenamenti. È importante imparare già lì. Anche Daniel, prima di iniziare ad allenare, ha giocato nel San Giacomo. Ha dovuto smettere per problemi fisici, ha fatto anche esperienza in altre squadre. Poi quando abbiamo avuto bisogno di un allenatore, si è proposto ed è tornato, perché gli era piaciuto il modo in cui gestivamo la squadra».
Alessandro Conte, in squadra da cinque anni, conferma: «Vogliamo divertirci, nel senso più assoluto del termine. Se no, chi ce lo fa fare? Le difficoltà ci sono, soprattutto per trovare le risorse: dobbiamo gestire noi i palloni e le divise, ad esempio. Tuttavia può diventare un’occasione per responsabilizzarsi. Un paio di anni fa, ad esempio, dopo una partita eravamo al parco Tozzoni a bere qualcosa tutti insieme. Avevamo appena perso i play out, ma passata la delusione si rideva e si scherzava in compagnia. È passato un ragazzo della squadra che ci aveva eliminato ed è rimasto colpito: “Avete perso e siete a festeggiare? Allora l’anno prossimo vengo a giocare con voi!”. È bello che ci siano momenti così, di condivisione. In altre squadre in cui ho giocato, non ho visto molte cose simili. L’importante è divertirsi e stare bene insieme».